La Storia

Santa Maria Capua Vetere tra mito e storia:
la leggenda della Cerva Bianca

Cicerone l’aveva definita “l’altra Roma”, poiché nel II sec. a.C. eguagliava Roma per numero di abitanti. Parliamo dell’antica città di Capua, oggi conosciuta come Santa Maria Capua Vetere.
Molti la ricorderanno perché legata al nome di Spartaco, il famoso gladiatore che guidò la rivolta degli schiavi contro il dominio romano nel 73 a.C.

Non tutti, però, conoscono l’altro aspetto di questa terra, quello legato alle sue antichissime origini, ricche di mitologia e creature leggendarie.

Il termine “Capua” sembra derivare dal nome del suo fondatore, Capys, nipote di Enea. Sebbene non abbia riscosso la stessa fama del suo antenato più illustre, anche Capys era considerato un vero eroe e la sua storia ruota tutta intorno ad una mitica creatura, la Cerva Bianca.

Secondo alcune tradizioni, Capys sarebbe stato allattato da una rarissima cerva dal manto bianco candido, in un tempo in cui non era rara la credenza che animali selvatici potessero prendersi cura, inaspettatamente, di cuccioli d’uomo abbandonati (i più famosi furono senza dubbio Romolo e Remo, i fondatori di Roma allattati da una lupa).

La leggenda vuole che la mitica cerva sia vissuta per più di mille anni, poichè creatura magica ancella di Diana. Altre tradizioni, invece, vogliono la stessa cerva come dono di Diana ad un Kapys già adulto, in occasione della fondazione della città di Capua. Fu questi a prendersi cura della bestiola per tutta la vita, fino al suo tragico destino.

Lo storico Silio Italico ce ne parla in un verso:

“Ci fu una cerva, vista raramente nel mondo per il [suo] colore, che superava per bianchezza la neve, per bianchezza i cigni. Capys, mentre tracciava le mura con un solco, nutriva questo dono selvatico, addolcito dal gradito affetto della piccola [creatura] e nell’allevarla [le] donava il sentimento dell’uomo. Quindi, persa la sua natura selvaggia, [essa] sia si avvicinava docile alle tavole sia inoltre gioiva servile quando il padrone la toccava. Le matrone abituate al pettine dorato pettinavano la [cerva] mite e bagnandola nel fiume le restituivano il colore. La cerva era ormai una divinità del posto e la credevano ancella di Diana e secondo l’usanza si offrivano incensi agli dei. Questa tenace e beata per età e vita condusse una fiorente vecchiaia attraverso mille instancabili anni e raggiungeva per il numero di secoli le case fondate dai Troiani”.

La sua fine fu segnata ad opera dei Romani. Durante la II guerra punica, condotta dai Romani contro Annibale, per mano del condottiero romano Fulvio Flacco, la candida cerva finì sacrificata alla stessa divinità che le diede vita: Diana.
La cerva, infatti, era fuggita dalla propria terra poiché spaventata da lupi selvatici arrivati in città durante la notte, finendo però dalla cosiddetta “padella alla brace”.

Siamo nel 211 a.C.

“Infatti, improvvisamente agitata dall’assalto di lupi crudeli che entravano in città con le tenebre della notte (triste presagio di guerra), all’alba si era spinta fuori dalle porte e timorosa cercava una fuga spaventata per i campi posti presso le mura. Il comandante Fulvio durante una piacevole gara tra i giovani sacrifica quella che avevano catturato a te, o dea (a te infatti questa è una graditissima offerta sacra), e prega: -O figlia di Latona, vieni in aiuto a queste imprese”.

La vita della cerva finisce in maniera davvero paradossale: in nome ed onore della stessa divinità, Diana, adorata sia dall’antica popolazione originaria (uno storico mix di Villanoviani, Osci ed Etruschi ma notevolmente influenzati dalla cultura greca, visto che il fondatore Kapys era un fuggitivo troiano) che la accolse, amò e curò come creatura sacra, che da quella romana che invece la sacrificò uccidendola. Una triste sorte simbolo della perenne incoerenza umana.



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